di Gian Mauro Sales Pandolfini
Antonio López García può certamente ritenersi un virtuoso del pennello e dello scalpello, il maestro indiscusso dell’iperrealismo contemporaneo. Classe 1936, l’artista spagnolo mostra, nell’epoca dell’astrattismo e del concettuale, una tecnica di altissimo livello e una resa originale e riconoscibile. Nelle sue opere convivono epoche e influenze diverse e apparentemente inconciliabili, dalla cultura dei grandi maestri del Quattrocento italiano – che conobbe durante un viaggio nel nostro Paese intrapreso quando era appena ventenne – all’intensità espressiva del ritratto di Velázquez, dalla delicatezza del vedutismo alla Canaletto, inverata in silenti paesaggi urbani, alle suggestioni del realismo magico russo, del realismo madrileno, dell’iperrealismo americano e del surrealismo francese, o ancora dalle distorsioni impressioniste di Cézanne alle metamorfosi del cubismo.
Ne L’arte è contemporanea (Bompiani, 2012), Vittorio Sgarbi, che lo ha definito “il più grande artista vivente”, racconta che negli anni Settanta, quando era ancora studente universitario a Bologna, visitando una bella mostra al Palazzo Reale di Milano curata da Gianfranco Bruno e intitolata La ricerca dell’identità, è incappato oltre che in Nitsch, Bacon, Giacometti e Freud, proprio in López García. Era esposta una nota scultura, Uomo e donna (1968), paragonabilissima, dice Sgarbi, al Profeta Abacuc (1430 ca.) di Donatello. Gli parve anzi che López García fosse ancora più estremo di Donatello” ricorrendo a resine e stucchi in grado di accentuare una fedele riproduzione della realtà: “Insomma, ero di fronte a un prodigio, e non l’ho più dimenticato”.
Se i critici dominanti dell’epoca, conclude Sgarbi, chiusi nei loro circoli ristretti di collezionisti e amatori, non ne capirono subito e pienamente la portata, fatta eccezione per Giovanni Testori che apprezzò l’artista quando era ancora giovanissimo, il tempo e le grandi personali a lui dedicate (da Madrid a New York) ne hanno in qualche modo sancito la grandezza, consacrandolo a “mito dell’arte contemporanea, ammirato dagli spagnoli come un santo dell’arte, un nuovo Murillo cui tributare onori e riconoscenza”. Sono infatti gli anni Sessanta e Settanta che ne decretano la fama e il successo. Al 1992 risale il documentario su di lui girato dal regista Victor Erice, I sole della mela cotogna, che vince pure il premio della giuria al 45° Festival di Cannes
Negli anni Cinquanta l’influenza esercitata da Picasso scivola in una sorta di realismo sospeso tra tensioni concrete, legate agli ambienti domestici, e apparizioni magiche, metafisiche, soprannaturali che in qualche modo lo rendono difficilmente etichettabile, unico come il cantore americano della solitudine Edward Hopper.
Nessun approccio commerciale nelle sue opere, sorde alle seduzioni economiche del mercato dell’arte: il suo intento rimane distaccato e alienato, protetto, per così dire, da una dimensione a lui nota e familiare che in tutte le sue opere si fa comunque ricerca di verità e sospensione magica. Nella celebre Apparizione (1963) un bambino, fluttuante nell’aria di una casa umile ma immensamente bella nel suo squallore, si dirige verso una porta semiaperta dove una coppia abbracciata – forse i genitori – dorme profondamente in un letto sormontato dal crocifisso, mentre alle sue spalle una figura femminile sbuca dal muro del corridoio, come a voler sorvegliare la scena.
Nel 2014, in occasione della XV edizione del festival La Milanesiana alla Pinacoteca di Brera di Milano, La Cena di López García è stata messa a confronto con la Cena in Emmaus (1606) di Caravaggio, in un allestimento curato da Luca Volpatti. La quotidianità domestica del sedersi a tavola per cenare viene restituita da entrambi gli artisti, grandi maestri della realtà, a una dimensione essenziale e autentica. La vita viene semplicemente raccontata e apparecchiata agli spettatori, sia che si tratti di un episodio sacro, biblico, sia che si tratti di un rituale quotidiano, la cui sacralità è data dalla ripetitività del gesto che si fa aggregazione, famiglia. López García, come Caravaggio, rivendica la grandezza dell’umanità nei piccoli gesti quotidiani, nella stessa vita per come ci è stata donata da Dio. Del resto anche Cristo è Dio che si umanizza, che si fa uomo per arrivare ai suoi figli, assorbendone il dolore e la passione. Cristo è Dio che condivide con l’uomo la sua condizione mortale, fragile, quotidiana “Siamo nel crepuscolo”, dice López García parafrasando Wagner, eppure “Gli dèi sono andati via” per lasciar posto ai loro figli mortali, i cui oggetti si fanno testimonianza di quella condizione di eroismo che s’invera solo nella sopravvivenza quotidiana, nella vita di ogni giorno.
Costante e vibrante dunque la tensione verso la bellezza, una bellezza per le cose e le forme semplici, umili, comuni, la cui essenza genuina è valorizzata dalla luce e dalla cura del dettaglio: sono questi gli strumenti che ne rivelano la poesia, con la stessa dimensione ieratica e silente che avvolge le grandi vedute di Madrid.
Spesso molte sue opere, dipinti, disegni o sculture, sono rimaste incompiute. E il che non stupisce più di tanto: il maestro spagnolo crede nel dinamismo della materia, sa che le cose sono in continuo divenire, che la realtà non è mai statica ma soggetta a persistenti movimenti e mutamenti, concause che impediscono all’artista di concludere spesso le sue opere o di dare allo spettatore l’illusione di esser state definitivamente compiute: “un’opera”, dice a mo’ di manifesto poetico, “non si finisce mai. Arriva soltanto al limite delle proprie possibilità”, anche quando sembra finita. Sembra di riavvertire l’eco di Donatello, Leonardo, Michelangelo e persino della filosofia neoplatonica che riconosceva nell’arte il medium privilegiato di cui l’uomo può far uso per arrivare a Dio, seppur nella consapevolezza dell’impossibilità di rappresentare pienamente l’immagine divina di cui la materia è solo una semplice copia, di rappresentare ossia quel pensiero creativo – in cui si cela la divinità immanente nell’uomo – destinato a restare in parte imprigionato nel non-finito della materia stessa.