Se c’è qualcosa che mi piace ribadire è che il più delle volte la bellezza si cela dietro una provocante inquietudine, e non solo nell’arte. Molti di noi tuttavia fuggono per timore forse di essere folgorati ex abrupto. Scomoda, alquanto difficile verità. Credo che il senso, o se vogliamo lo scopo dell’arte sia quello di rendersi medium eletto alla trasmissione di noi stessi nel futuro. Perdonatemi questo volo pindarico: c’è chi sceglie di riprodursi biologicamente “creando” figli, chi invece riproduce se stesso in maniera asessualmente artistica, tramandandosi in un’opera. Forse ognuno di noi, in effetti, prima ancora di sperimentare la sterile ma divertente masturbazione ha riprodotto la propria essenza in un disegno infantile. Eppure entrambe le cose, per chi si diletta anche nella seconda, arrecano piacere, benché l’arte non si limiti a esaurirsi in una smorfia godereccia, estatica, di berniniana memoria. Ho sbagliato poco fa a definire una riproduzione artistica come “asessuale”. In verità c’è un eros, una vera e propria tensione nervosa quando l’artista crea: essa è tale da scatenare alle volte ansia da prestazione. Egli diviene così amante di se stesso, si auto indaga, s’intriga, litiga e fa pace col proprio io in un “lascia e piglia” costante. Per un artista il desiderio di creare si fa necessità al pari di una legge di conservazione della specie. È così che il manufatto artistico assume il ruolo di custode del proprio artefice, contenitore salvifico dell’anima di chi lo ha creato, come gli fosse attribuita una proprietà sovrannaturale in grado di sfidare il tempo che a tutti sfugge.
Prima della fotografia, lo sappiamo, solo i dipinti e i monumenti (per i più abbienti o fortunati) rappresentavano il ponte per una presunta eternità. Ciò nonostante dimentichiamo, noi umani furbetti, che questa è solo una ammaliante, molto lusinghiera, illusione. Ogni cosa – e mi trasformo per un attimo nel monatto manzoniano – è destinata a finire ricordandoci che… si deve morire! Ce lo ricorda benissimo, con l’efficacia e il nero della sua arte, Nicola Samorì (Forlì, 1977), il cui lavoro magistrale mi pare possa definirsi, se non tutto almeno in larga parte, un eccezionale e straordinario memento mori. Il volto, ciò che rende immediatamente riconoscibile ognuno di noi, quel che appunto nella ritrattistica rappresenta il fulcro, subisce quasi sempre nella pittura di Samorì un’ironica e fatale trasfigurazione iconoclasta.
La materia pittorica pare gorgogliare, insofferente, per sciogliersi e affrancarsi dal sostegno che la accoglie, per non dover rimanere fissata dalla mano dell’autore al supporto in cui s’invera e svolgere la sua funzione meramente didascalica. I colori, mescolandosi tra loro come mossi da volontà propria, colano e talvolta trascinano con sé brandelli di pittura raggrumata, secca, che si strappa e si disgrega, accartocciandosi in se stessa e sfigurando i soggetti rappresentati. Sembra che il dipinto, analogamente all’analogo di Wilde, non voglia, non possa sostenere il fardello di quell’anima che l’artista tenta di imprigionargli, quel brandello di infinita finitudine umana che rende le opere d’arte così vive. Sono delle opere d’arte ribelli quelle di Samorì, eredi della pittura manierista e secentesca, superbe citazioni di grandi maestri – Bronzino, Ribera, Rembrandt, Giordano, Cagnacci, per citarne solo alcuni – la cui aura perduta non è qui in grado di farsi carico dell’immortalità di un’umanità già in agonia.
I toni cupi e freddi, il nero che, onnipresente, pervade e offusca le forme, non sono soltanto mirabili artifici di lezione caravaggesca, ma contenuto stesso di questo nichilismo prezioso che sì può angosciare, ma che sa arrivare anche dritto all’obiettivo attraverso il morboso sguardo del fruitore, il quale, dinanzi all’epifania divina, non riesce ad accettare immediatamente la propria condizione di finitudine. Tutti vorremmo non dover cessare di esistere, ma chissà, forse un giorno, quando anche il nostro pianeta sparirà, ogni opera d’arte a noi sopravvissuta si sgretolerà, mescolandosi magari a qualcos’altro nell’universo di cui farà parte.