Ogni persona ha provato almeno una volta nella vita a confrontarsi con il concetto di infinito. Ebbene, per quanti libri un uomo possa leggere, di quante competenze possa fare tesoro, per quanto cerchi, erudito o no, di spingere ai limiti le facoltà dell’intelletto, non si potrà mai abbracciare del tutto ogni meccanismo dell’universo. Anche la Scienza è circoscritta entro dei limiti, giacché pur sempre limitato è il nostro essere. A differenza di altre creature viventi abbiamo tuttavia la possibilità di concepire questo infinito e osservarlo, di relazionarci con esso. Ricordo quando da bambino si andava d’estate nella casa di campagna della nonna, luogo per me di irripetibile felicità. Il ricordo di quelle notti, libero di gironzolare per il terreno tra una piccola selva d’alberi e l’orto, in cerca di incantevoli rospi, così grossi che le mie mani non riuscivano a contenere, è indissolubilmente legato alla contemplazione di un cielo immenso trapunto di stelle. La meraviglia ipnotica di quella sterminata visione generava in me quel senso di stupore che ognuno di noi avverte dinanzi alla grandezza che ci sovrasta e che al contempo ci intimorisce e ci seduce, inscenando, per dirla con Walter Otto – illuminato studioso i cui scritti dovrebbero essere una Bibbia – «quel profondo orrore che troppo unilateralmente designiamo con paura» e che invece è «la più solenne e sublime disposizione d’animo». È in momenti come quello, sotto il cielo stellato, udendo magari in sottofondo la sinfonia dei grilli, che si rivela il sacro, l’ombra del divino, inteso non come qualcosa di sovrannaturale, ma qualcosa che, aderentemente alla religione greca arcaica, è parte integrante della natura stessa, che si manifesta sotto molteplici aspetti. I Greci compresero bene questa concezione del cosmo che i miti, nella loro compiutezza, rivelarono. Il divino è proprio della terra e alberga in ogni uomo, in grado di manifestarlo, diversamente dalla natura, attraverso quel che chiamiamo arte. È grazie a questa intima disposizione d’animo che siamo in grado di riprodurre, nel paradosso del confine, ciò che non può essere contenuto, la meraviglia dell’infinito.
Di notte, sotto quel cielo che per la prima volta mi affascinò, ha sostato molte volte un uomo che in solitaria compagnia di alcune pecore, intento a compiere il proprio dovere di pastore, si sarà perduto con la mente nella contemplazione del cosmo sfavillante. Mi riferisco a Lorenzo Reina, un siciliano che tanto ha fatto parlare di sé negli ultimi anni. Eviterò di scrivere di lui nello specifico: chiunque faccia ricerche su di lui, potrà recuperare ovunque ingente materiale. Faccio presente, però, la singolarità di questa figura, che definire solamente artista sarebbe riduttivo.

Prima ancora di essere scultore e architetto è stato pastore per necessità, assecondando, in un entroterra rurale, la volontà del padre. Eppure un impeto già lacerava quest’uomo investito della responsabilità paterna e chiamato all’arte, sicché, armato di caparbietà, ha deciso di seguire la propria vocazione, la scultura. Oggi Reina è tornato a fare il pastore, scoprendo con gli anni, in seguito a una promessa fatta al defunto genitore, che i due mondi si compenetrano perfettamente. La “Fattoria dell’Arte” – agricoltura biologica, allevamento di asini, fucina di opere e sculture – è infatti la sintesi del suo trascorso, della sua storia. Al suo interno il Teatro Andromeda rappresenta il più emblematico esempio della poetica visionaria di quest’uomo. Sorto in un punto strategico, questa sorprendente architettura in pietra, che sembra una rovina micenea, fonde se stessa col territorio in maniera simbiotica, ed entra in comunione col cielo e col mare che ne costituiscono la scenografia. Nella cavea, centootto cubi di pietra, sovrapposti a coppia e ruotati in modo da formare stelle a otto punte, riportano al suolo gli astri che costituiscono la costellazione di Andromeda da cui il teatro prende il nome. Il suo costruttore si è lasciato ispirare da una suggestiva immagine che riguarda la futura collisione tra la galassia di Andromeda e la nostra Via Lattea, che nel frattempo viaggiano l’una incontro all’altra a una velocità per noi impercepibile. La struttura del complesso è delimitata da un muro di massi incastrati tra loro e interrotto da due porte, l’una per accedere alla cavea stessa dall’esterno – il cui infisso, incardinato su un perno, ruota su se stesso, alludendo alla ciclicità giorno-notte – l’altra, al centro della scena, senza infisso, proiettata verso la valle sottostante, sul cielo, sull’infinito, che idealmente diviene anche la volta del teatro.

Ecco che qui s’invera il senso del sacro di cui parlavo prima, in un’opera che, guarda caso, trae linfa da quella grecità la cui sensibilità ha definito il pensiero del mondo occidentale e a cui noi, troppo spesso, voltiamo le spalle, dimentichi delle nostre radici. Reina le mantiene salde queste radici, da uomo curioso e virtuosamente umile che ha saputo attuare, non senza sacrifici, la chiara idea scaturita da quel sentimento di riverenza nei confronti della natura, mostrando con la sua commovente architettura quanto l’arte possa essere parte di essa.