Tutto quel che affermo scrivendo è una personale visione del mondo e, come tale, è giustamente opinabile ma al tempo stesso squisitamente legittima. Partiamo da un presupposto per me fondamentale ovvero quale sia lo scopo dell’arte. Come ho scritto in un precedente articolo, credo consista in una necessità riproduttiva dell’essere umano che sussiste al di fuori dell’esperienza sessuale e in cui l’opera diviene una emanazione dell’artista in una sorta di partenogenesi. L’artista fa arte poiché ne avverte l’esigenza, cui non può sottrarsi, che genera un atto fine a se stesso. Che poi quest’atto si carichi d’altro, di un significato, rappresentando un mezzo espressivo per il proprio artefice, è fuor di dubbio, ma è un qualcosa che avviene – o può avvenire, non è un imperativo – secondariamente, in quanto soddisfa un altro bisogno tipicamente umano, la comunicazione. Ecco che l’arte diventa linguaggio, ambiguo idioma per il quale non può esistere dizionario né tantomeno corretta traduzione. Tralasciamo dunque per un momento il valore di ogni corrente artistica, mettiamo da parte ogni scuola di pensiero, qualunque preconcetto dettato da esperienza e gusto personali. Si converrà che nessuno potrà affermare con sicurezza quale sia il significato di una determinata opera d’arte, eccetto l’autore dell’opera stessa – che in alcuni casi può anche non averne piena contezza – eppure, identico al miracolo della creazione, si manifesta con egual prodigio l’epifania di un messaggio il quale, agendo più o meno diversamente su ogni individuo, svolge la propria funzione deputata. L’arte come ambasciatrice di un vortice in cui si riversa bellezza, orrore, euforia, inquietudine, ogni umana passione e perversione, malattia. Insomma, un vaso di Pandora dal contenuto tutt’altro che nefasto e che assolutamente concorre a determinare impulsi, reazioni, quesiti.

A tal proposito, sebbene l’argomento sia impossibile da affrontare in una breve trattazione come questa, ci si interroga spesso sull’utilità della pittura oggi, o meglio, su quanto sia legittimo continuare a fare un certo tipo di pittura. Dal Novecento in poi, è noto, accade quel che in alcun secolo precedente si è verificato, esplodono una serie di costellazioni, galassie artistiche che a una velocità mai vista si susseguono e intrecciano, mutando per sempre la concezione stessa del far arte. Sembra che in un centinaio d’anni, un lasso di tempo relativamente ridicolo, si sia sperimentato quasi di tutto, reinterpretando il passato o scardinandolo completamente. Alle soglie del Secondo millennio, tuttavia, e arrivando fino a oggi, pare che l’arte – la pittura in particolare – non abbia più nulla da sperimentare a seguito dei fecondissimi e imprevedibili esiti novecenteschi. Che gli sfortunati artisti siano allora condannati alle spire di un sempre ciclico manierismo? A meno che non si attuino modi ancora inediti di fare arte o si adoperino nuovi materiali e mezzi – e il digitale è uno di questi – parrebbe proprio di sì. Il web e le sconfinate opportunità che la rete offre dall’avvento dei social e degli smartphone potrà essere la nuova frontiera dell’arte.

Fortunatamente, tutto questo non soppianterà quella “tradizionale”, evento già paventato alla comparsa di altri mezzi espressivi oggi considerati assolutamente convenzionali quali fotografia e cinema, dimostrando ampiamente quanto un mezzo come la pittura, col suo eterno ritorno, non cesserà di esistere che con la stirpe dell’uomo. Cecily Brown (Londra, 1969) è una di quelle artiste che sfrutta le possibilità apparentemente limitate della rappresentazione pittorica per dar vita a delle tele dagli effetti sorprendenti. A prima vista potrebbero apparire quali omaggi all’astrattismo, cui si ispira senza dubbio, per approdare però alla definizione di uno stile personale che pesca a piene mani dall’esperienza di De Kooning e non solo. Il risultato è godibilmente intrigante. Brown si lascia trasportare dall’impeto del gesto pittorico che delinea inizialmente una sorta di impalcatura dell’opera, quasi aleatoria, sulla quale proseguire in maniera più calcolata abbozzando delle figure, e dando infine l’impressione che le macchie e gli intrecci di colore restituiscano all’occhio, per un effetto di pareidolia, scenari e personaggi che non esistono.

La tavolozza dei colori inoltre, quanto mai varia e di vibrante intensità, partecipa della creazione di un gioco costantemente in bilico tra astrazione e figurazione. Del resto, la stessa artista afferma di non voler orientarsi completamente verso né l’una né l’altra scelta. Perfino quando, in occasione di alcune mostre, si cimenta in un vivace dialogo con i capolavori degli antichi Maestri, mantiene coerentemente vivo il proprio linguaggio espressivo, interpretandone con piglio frizzante il contenuto che, decontestualizzato, potrebbe sembrare un puro esercizio e che invece pone gli spettatori davanti a un quesito. Ha senso, in un’epoca post-storica come la nostra, già bombardata e sempre più satura d’immagini, un’ulteriore produzione di immagini pittoriche? Credo di poter rispondere, senza esitazione alcuna, affermativamente. Smettere di dipingere equivarrebbe a morire.
