Se amate le curiosità, gli oggetti bizzarri, le camere delle meraviglie e possedete un equilibrato e autentico gusto per il macabro, allora avrete certamente sentito parlare di Raimondo di Sangro, eccentrica figura napoletana vissuta in quel frizzante, bizzarro, contradditorio e meraviglioso periodo che è il Diciottesimo secolo.
Aristocratico, inventore, esponente dell’Illuminismo, “celebre indagatore dei più reconditi misteri della natura”, commissionò l’ampliamento di un’opera, la propria cappella di famiglia, che contribuì a rendere uno dei complessi barocchi più intriganti d’Europa. Se non l’avete mai vista, vi consiglio di fare un bel viaggetto a Napoli e visitarla assolutamente. Ne uscirete cambiati, ve l’assicuro, non tanto per il sentimento di bellezza che vi pervaderà, quanto più per la sensazione di smisurato stupore dinanzi a opere scultoree la cui fattura pare trascendere ogni umana tecnica. Generazioni di uomini hanno ammirato la Cappella di Sansevero e ancora molti, tra noi contemporanei, continuano a chiedersi come sia stato possibile raggiungere una tale perfezione formale tanto da indurre il pensiero che non di scultura si tratti, ma di trasfigurazione della materia. Non marmo, ma un processo di “marmorizzazione” degli elementi, siano essi tessuti, muscoli, corde.
Riflessioni che hanno fatto guadagnare allo stravagante principe l’appellativo di mago, mentre gran parte del popolo di Napoli, tutt’ora, crede che il nobiluomo avesse stretto un patto col diavolo per poter compiere i propri studi privati. Per quanto affascinante sia la leggenda, sappiamo che alcuni dei capolavori di punta presenti nella cappella portano la firma di abilissimi scultori quali Giuseppe Sammartino, Antonio Corradini e Francesco Queirolo e che le celebri e chiacchieratissime “macchine anatomiche”, riproducenti l’intricato e delicatissimo sistema di vasi sanguigni del corpo umano, non sono cadaveri ai quali furono iniettate nelle vene sostanze misteriose al fine di cristallizzarle, ma frutto di un altissimo e straordinario lavoro artigianale da parte di un medico e anatomista palermitano, Giuseppe Salerno.
Pensavo che non esistessero più artisti in grado di padroneggiare la materia con altrettanta destrezza e singolarità, e invece, di nuovo, ho dovuto ricredermi. C’è una coppia di giovani maestri, Gli Affiliati, ovvero Matteo Peducci (Castiglione del Lago, 1980) e Mattia Savini (Siena, 1982) che hanno fatto della scultura la propria ricerca, ricavando dal marmo l’elemento universale per indagare la realtà contemporanea, regalandoci ancora una volta la barocchissima illusione del piacevole inganno.
Per rimanere in tema di illusione, se nel teatro si utilizzano i più diversi materiali per dar vita all’atmosfera e all’ambientazione delle scene, spesso “scenografando” elementi quali il legno, il polistirolo, le resine, che attraverso la scultura e la pittura assumono le caratteristiche delle cortecce, del vetro, della pietra e così via, i due artisti adottano il procedimento inverso nel proprio laboratorio. È così che nascono sculture che, in maniera apparentemente banale, hanno la parvenza di essere costituite da tutt’altro materiale fuorché il duro e freddo marmo. Cartone, plastica, polistirolo. Avreste mai pensato che un materiale lapideo potesse rendere, almeno visivamente, la leggerezza e la consistenza apparente del polistirolo, le crepe polverose di un legno carbonizzato, l’elastica flessibilità della gomma? Osservando le loro meravigliose opere ho avuto la stessa incredibile reazione che ho provato dinanzi alla maestà delle opere napoletane. Anche Peducci e Savini, a modo loro, sono dei moderni alchimisti, che gareggiano con immensa bravura nella trasfigurazione della realtà, lasciandoci sul volto un’espressione di limpida e inaspettata incredulità, come un bambino di fronte a un trucco di magia. Non vi è, tuttavia, alcun sortilegio, e stavolta i due non potranno godere del fascino oscuro della leggenda al pari del principe partenopeo. Possono contare, però, su un saldo bagaglio di conoscenza del mestiere di scultore, facendo tesoro di ogni tecnica sperimentata nel passato e mutuata dalla tradizione. Grazie a tutto questo riescono a plasmare a loro piacimento la robusta superficie del marmo. La conoscenza e la consapevolezza del passato diviene il loro laboratorio alchemico, incline ad accogliere, con la naturale curiosità che contraddistingue l’uomo d’ingegno e l’artista, tutto quel che di nuovo può ancora essere conosciuto. O straordinariamente trasformato.