Quanto mi piaceva andando al mare, in un passato che ormai mi pare remotissimo, dedicarmi alla costruzione di un castello o di un ponte di sabbia, nell’unico frangente di tempo nel quale non fossi immerso in acqua a disturbare amici pesci e paguri o intento a farmi trasportare dalla corrente guardando il cielo, sospeso dai flutti, e sfidando la probabilità di incontrare sulla mia rotta i magnifici tentacoli di qualche adorabile medusa. Mi adagiavo sulla battigia in modo tale che almeno i piedi continuassero a essere sfiorati dalla fresca risacca – per me andare al mare era ed è tutt’ora stare perennemente in acqua – e con le sole mani come strumento iniziavo a scavare, complice la piacevole sensazione di affondare i polpastrelli in quella sabbia costantemente bagnata e compatta che mi incantava.
Quella che toglievo mi serviva da materia prima per la costruzione della torre, mentre i solchi che andavo creando sarebbero stati svuotati fino a che non si fossero incontrati formando un varco. Ecco, alla fine, un bel ponte e una torre, decorata da immancabili conchiglie e brandelli di posidonia. Poi, fiero del mio lavoro, rimanevo lì ad ammirare il tutto, fin quando, poco per volta, l’azione erosiva del moto ondoso e il sole, che seccava le estremità della costruzione, non comportavano il cedimento dell’intera struttura che si sgretolava piano trascinando con sé il resto. Rimaneva così una romantica rovina che gli elementi avrebbero in breve cancellato per sempre.
Mi divertiva, provando nel frattempo una sensazione di inquieta fugacità, fingermi una sorta di divinità marina che osservava dalla riva, complice l’immortalità, il corrompersi delle opere umane, e aver assistito, in un lasso di tempo che per me era relativamente breve, qualche secolo, allo splendore e al declino di quell’edificio che adesso era ridotto a un relitto. Con la stessa indifferenza di un dio, poi, mi rituffavo in acqua per sparire qualche altra ora, prima che mia madre o chi per lei venisse a ripescarmi. Questa memoria per tornare a ribadire, anche a me stesso, un’idea che difficilmente credo di poter abbandonare. La bellezza – se non sempre moltissime volte – si genera dal tragico. Tento di spiegarmi meglio, abbiate pazienza però. Per farlo, ricorrerò a uno dei miei soliti voli pindarici.
Dunque, la morte di qualcosa, limite estremo, processo inevitabile, necessità, che noi umani accostiamo quasi esclusivamente al mondo organico, investe e riguarda ogni particella che esiste e si trasforma. Certo, nel contesto delle relazioni umane, la metamorfosi può essere sinonimo di scomparsa, può coincidere con la fine. Annullamento di ciò che appare sensibile alla percezione del reale e tuttavia mai compimento di quella stessa realtà che si manifesta ai nostri occhi, mirabili strumenti d’indagine, spesso vittime di illusione. La troppa luce, del resto, abbaglia e paradossalmente non mostra né rivela, al pari di una fitta oscurità. La morte è trasfigurazione, mutamento della materia che sempre viaggia, in un moto costante, attraverso quel che chiamiamo Tempo e che cerchiamo, nostro malgrado, di misurare. Non possiamo fare a meno di misurare, valutare, studiare il mondo, è un processo fisiologico inscritto nel codice del nostro essere e la ragione, questa forza che agisce su di noi e che ci ha reso terribili – nella doppia accezione di esseri capaci di azioni deplorevoli quanto magnifiche – questa spinta all’indagine e all’esplorazione dell’universo in ogni suo possibile angolo pare essere anch’essa limitata, proprio perché facente parte di una realtà, quella umana, che limitata lo è naturalmente. Eppure alla ragione s’accompagna spesso un’altra facoltà tipicamente umana, l’immaginazione. Questa è, in effetti, più che compagna, una derivazione della ragione stessa, un’attitudine dell’intelletto che non cerca tanto di spiegare le cose, pur facendoci porre altrettante domande, quanto di avvicinarsi il più possibile, e alle volte in maniera inaspettata, a quell’infinito di cui facciamo parte e che non possiamo comprendere interamente. È un modo di trascendere, per un attimo, quel limite necessario al quale siamo sottoposti attraverso suggestioni e reminiscenze, desideri e sogni a occhi aperti. E qual è il più superbo frutto dell’immaginazione? L’arte in ogni sua forma, incredibile estroflessione dell’anima, espressione e linguaggio, salvezza e catarsi. E come prodotto dell’uomo è bello perché tragico. Perché la tragicità della bellezza, forse, sta infatti nell’utopia della sua perpetua conservazione. La corrosione del tempo, spesso, dona quella sublimità alle opere umane perché ce le mostra nella loro fragilità oggettiva. Una fragilità che condividono con le opere, straordinarie, della Natura, prima e assoluta Maestra alla quale l’intelletto umano si è sempre ispirato. Anche quando tutte le nostre imprese saranno cancellate, alla stregua di un semplice castello di sabbia sulla spiaggia, può darsi che rimarrà qualcosa nei meandri della storia, o forse nella memoria di qualcuno. Fino a quando tutto quel che conosciamo fluttuerà, ridotto in polvere, in scie luminose attraverso miliardi di stelle.