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Le ceramiche di Giuseppe Ducrot

di Luca Ferracane

Quando si parla di scultura balza subito alla mente l’immagine abbagliante e candida del marmo bianco o la bruna patina del bronzo che per ossidazione, se esposta alle intemperie, diviene di un bel verde acido satinato. Pensiamo alle maestose sculture rinascimentali o alle allegoriche rappresentazioni poste in cima ai monumenti delle nostre città. Eppure, lo sappiamo bene, i materiali con i quali sono realizzate le sculture oggi sono tra i più eterogenei, dalle più disparate varietà di pietra e minerali, ai diversi metalli, fino ad arrivare alle resine sintetiche, al polistirolo – ampiamente adoperato per malleabilità, leggerezza e possibilità di trasformazione nella scenografia teatrale e cinematografica – alla neve e alla sabbia: numerosi scultori si cimentano, infatti, nell’uso di questi materiali per realizzare veri e propri capolavori effimeri su campi innevati e spiagge. Un altro composto che ha a che fare con la terra e che ha acquisito la sua importanza in passato, anche se in forma il più delle volte effimera, è la ceramica. Volendo fare un appunto, la ceramica comprende, per così dire, dei sottogeneri, quali la porcellana, con un impasto chiaro, più compatto e resistente, e la terracotta, invece più porosa e dalla caratteristica tonalità che va dal rossastro al mattone. Quest’ultima ha appunto costituito, tralasciando l’enorme produzione antica riservata prevalentemente alle suppellettili e ai vasi, ciò che il disegno ha rappresentato per i grandi maestri, il principio, il fissaggio dell’idea, in altre parole, il bozzetto. 

Questi bozzetti sono capolavori a sé, sopravvissuti spesso parzialmente, in quanto destinati alla progettuale presentazione al committente della futura opera da realizzare. Tutti noi conosciamo oggi, ad esempio, gli studi preparatori di Bernini immortalati proprio nella terracotta. Il materiale ceramico, dunque, che acquisisce una propria dignità universalmente accettata per la scultura solo a partire dalla seconda metà del XIX secolo, avrebbe potuto raccontarci molto di più, se ci fosse pervenuto in maniera più cospicua. Un bravo e interessante scultore odierno è Giuseppe Ducrot (Roma, 1966). Virtuoso, padroneggia molteplici tecniche scultoree, plasmando però nella ceramica i suoi lavori più interessanti e ricchi di fascino. Tralasciando le opere tradizionali, molte delle quali monumentali commissioni per conto di alcune diocesi italiane, si intuisce quanto abbia inciso sulla sua formazione lo studio di modelli classici, con una particolare predilezione per la plastica sei-settecentesca di scuola romana. 

Alcuni tra questi lavori, siano essi ritratti, allegorie, cornici, sculture che fanno il verso ai bozzetti preparatori secenteschi, sono concepiti il più delle volte, come dice lo stesso Ducrot, quali veri e propri pezzi di design. È facile intuire che, in una camera dal disegno minimale, una o più opere di Ducrot possano perfettamente costituire il fulcro attrattivo d’insieme, viceversa, in uno spazio più ridondante e dettagliato, ugualmente parteciperebbero a pieno titolo alla bizzarra raccolta di una Wunderkammer. 
Le forme e l’impianto ancien regime, tuttavia, acquistano un diverso valore, e le volute, i volumi che s’intrecciano, i decori fitomorfi o le figure antropomorfe si deformano allungandosi – allo stesso modo dei dipinti di El Greco – dando l’illusione di un dinamismo che pare voglia dare vita alla materia fino a farla muovere e pulsare improvvisamente. 

Guardando alla prolifica produzione di questo abile scultore, stupisce la grande capacità tecnica da cui traspare un’esatta conoscenza delle proporzioni e, nel caso della figura umana, dell’anatomia artistica. Tra la compiutezza di molte sculture, si distinguono tuttavia per singolarità quelle che sembrano essere dei non-finiti, degli studi. Il bozzetto “crudo”, non ancora cotto nei forni, costituisce per i non addetti ai lavori il mistero dell’intelletto dell’artista. È proprio lì che si può leggere, al pari di un libro, quel processo creativo lento, fatto di ripensamenti e modifiche, oppure impulsivo e iconoclasta, quell’iter compositivo che porta, in altri termini, all’opera compiuta. Ebbene, certi pezzi di Ducrot rimangono così, nel loro stato embrionale, come in attesa di emergere più concretamente dal proprio groviglio confuso in cui però si riesce già a leggerne la forma che verrà. Le sue sculture, quasi fossero composte di cera sciolta e morbida, cristallizzano, una volta cotte e perché no, smaltate o vetrificate, l’intenzione artistica celata agli occhi del pubblico. Come se Ducrot stesso mostrasse in questi lavori l’attimo in cui, da artista, plasma la materia con l’intelletto, mentre gioca a fare il dio, il demiurgo.

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