baBBilonia

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi e… di murales.

Dissertazione impopolare 

di Luca Ferracane

Stavolta non ci girerò attorno. Credo che ormai il murale – in italiano utilizziamo sovente il plurale spagnolo in maniera errata – sia un tipo di espressione inflazionata, abusata e sopravvalutata. Attenzione, non nego affatto che molti possano avere un assoluto pregio artistico, la mia critica non è mossa alla dignità dell’opera in sé, quanto alla funzione segnica che a essi, fanaticamente, si attribuisce. La validità dell’espressione artistica, che come di consueto può piacere o meno non sarà mai messa in dubbio. Spesso un murale può avere un grande fascino ed essere realizzato con mirabile tecnica. Ma da solo non basta. Il punto focale del discorso, come dicevo, è la funzione che al murale falsamente e retoricamente si conferisce. Un potere riqualificante. Mi spiego meglio. 

Vorrei tanto non essere nichilista, eppure ritengo che questi interventi siano portati avanti con le migliori intenzioni, ovvero, nella quasi totalità dei casi, recuperare un contesto urbano degradato e abbandonato a se stesso, che è operazione, tuttavia, ben più complessa e, mi spiace dirlo, a tratti utopica. Si dovrebbero demolire interi quartieri sorti con logiche disumane, perché il degrado sociale si fomenta spesso laddove l’architettura cessa di essere un’arte al servizio dell’uomo e troppo si lascia invasare da teorie ideologiche lontane anni luce dai reali bisogni di chi dovrebbe abitare gli spazi da essa generati. Mi esaspero allora nel momento in cui a questa realtà, purtroppo diffusissima a livello globale, è affiancato il ridondante specchietto per le allodole dell’arte quale mezzo di sanamento. 

Non basta dipingere la facciata di un edificio, per quanto grande, per riqualificarla o farla “rinascere” se il contesto rimane architettonicamente e socialmente invariato, ed è quello che quasi sempre accade. Le periferie o altri quartieri degradati, nei quali il più delle volte questi interventi insistono, e che necessiterebbero di ben altro, acquistano una parete colorata pronta a scrostarsi, col tempo, tra l’incuria e l’indifferenza che si somma a tutto il resto. Un po’ come se un palazzo, un intero rione, fosse vittima del prodigio di Dorian Gray. Esternamente s’illude d’essere rinvigorito, sanato, migliorato, quando invece, all’interno, nelle sue dinamiche, resta tristemente guasto, perpetrando il proprio processo di putrefazione. C’è di più. Se l’opera, che in questi casi è sempre gigante, è realizzata su una struttura già di per sé infima, qualitativamente parlando, non fa altro che evidenziare questa bruttezza di fondo, che un dipinto con una bella tecnica o un bel messaggio non riusciranno a modificare. Questo accade perché credo sia un tipo di intervento non pensato contestualmente con l’edificio, come è avvenuto sovente nell’architettura che ha ideato per sé una pittura di decoro o completamento, e che risulta invece come una pezza, un rattoppo istituzionale che arriva laddove non si riesce a fare altrimenti, laddove la volontà politica si strozza per infiniti problemi sociali ed economici. Ecco perché non riesco a concepire i murales come qualcosa di compiuto, se non in rari casi. Perché rappresentano una sorta di allegoria del fallimento, un contentino dato a chi avrebbe bisogno di ben altro in certi contesti. Di dignità in primis, che si ottiene con la qualità architettonica, ben lontana dai quartieri dormitorio che non sono altro che tristi cicatrici sui nostri tessuti urbani.

Ricordo quando, a un esame in Accademia, azzardai dire la mia su quel popolare architetto di cui invece, da semplice studente, osavo disapprovarne il blasonato operato. Mi riferisco a Le Corbusier. Se siete adepti anche voi della sua religione, chiedo venia, abbiate la bontà di perdonare un individuo che non crede nei suoi dogmi, per quanto abbia provato con tutti i mezzi di avvicinarmi a quel tipo di poetica. Sì, alcuni principi di rinnovamento potrei anche condividerli, onore al merito per le nuove tecniche e i materiali sperimentati, peccato però che, opere feticcio a parte, tanti buoni propositi, come ho scritto sopra, fossero forse fin troppo “ideali” per essere applicati concretamente e con successo alla realtà. In ogni caso, anche una delle sue opere più famose come l’Unité d’Habitation di Marsiglia presenta, fin dall’idea progettuale, delle pareti interamente colorate in contrasto col cemento grezzo. Tralasciando il volo pindarico su Le Corbu e il mio esame in cui presi ventinove – non certo per un eccesso di libera e democratica espressione – torno ad affermare che quando l’intervento pittorico su un edificio non è concepito unitamente alla sua progettazione, difficilmente si armonizzerà col contesto – Significativa la storia della villa E-1027 a Roquebrun-Cap Martin, progettata da Eileen Gray, architetto e designer d’interni e divenuta iconica per il modernismo francese. La villa realizzata sui medesimi presupposti che andava teorizzando Le Corbusier, affascinò e in qualche modo ossessionò il noto architetto, che, senza alcun rispetto per il progetto originario, decise di realizzare dei murales sulle bianche pareti dell’edificio ormai abitato solo dall’amico Badovici, ex marito della Gray. Per decenni si è creduto ingiustamente che la paternità dell’intera villa fosse di Le Corbusier, cosa peraltro non smentita neanche da lui. Ma questa è un’altra storia.

Insomma, i murales, quando postumi e giganti, non riqualificano, semmai possono denunciare, per contrasto, la bruttezza e lo squallore di un edificio che mortifica sia il paesaggio, sia la gente che lo abita. Questo tipo di operazione artistica può infatti contribuire ad accendere una scintilla, puntando l’attenzione su una realtà che per il resto rimane nel suo stato immobile, vittima del degrado e dell’abbandono delle istituzioni, che paradossalmente e paternalisticamente finanziano questi interventi di pura facciata quando non accompagnati da concreti progetti di recupero che la pittura muraria da sola non può realizzare. Se il fenomeno poi, messa da parte la denuncia, si limita solo a soddisfare la vanità dell’artista – non prendiamoci in giro, ogni artista è giustamente vanesio e non sarebbe tale se non lo fosse – allora credo che sia eticamente ingiusto sfruttare l’immagine di un luogo disagiato su cui schiaffare la propria immensa, accattivante voluttà artistica. Meglio, in questo caso, dedicarsi a interventi civici più dimessi, che si fondono col tessuto urbano, che sbucano improvvisamente alla vista, quasi in una caccia al tesoro col fruitore. Lo trovo più dignitoso. Allora avrebbe un senso diverso. Più libero e artisticamente autentico. A proposito, cercate, se può interessarvi, l’opera di Eileen Gray, l’artista di cui vi ho parlato prima. Certe volte la storia mette da parte dei personaggi che è più facile mantenere nell’ombra, come le verità, spesso scomode e scartate. A meno che non si decida, e si è pur sempre liberi di farlo, di dipingerci su, magari su larga scala. 

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