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Liu Bolin, la sparizione della coscienza

di Luca Ferracane

Affascinante è la capacità di mimetizzazione propria di tanti animali, caratteristica che ai nostri occhi appare quale magnifica bizzarria, al pari di un’opera d’arte. Che sia sfruttata per cacciare o per scampare ai predatori, questa è indispensabile per la sopravvivenza dell’individuo. Anche per l’uomo potrebbe rappresentare una via di fuga di epicurea memoria, qualora fosse portata avanti volontariamente. Il vivi nascosto non è più sicuramente un modello di vita applicabile – o quantomeno auspicabile – nel nostro mondo, l’era dei social, nella quale ogni respiro pare debba essere confezionato ad hoc e condiviso con la comunità che vive di momenti altrui. L’individuo, oggi più che mai, vive per mostrarsi, per essere guardato. Viviamo quasi tutti una vita pornografica, in cui tutto, e ripeto tutto, è svelato fino al parossismo. Ogni cosa degrada a uno stato inferiore, perdendo di significato e valore. L’importante è far vedere, urlare al mondo la propria esistenza, non importa a quale costo, per un pubblico massificato e composto da altrettante monadi che mai riescono realmente a comunicare tra loro, vittime della comune smania d’apparire. Oggi esistiamo in quanto presenti nel mondo virtuale.

Chi sfugge alle maglie di questo universo altro, in cui si dipana la presunta vera vita, ostentata, di ognuno, difficilmente sarà accettato, o meglio, riconosciuto dalla collettività, quasi come fosse un errore. Ricordo quando, fatta conoscenza – di presenza, è bene precisarlo – con un gruppo di ragazzi, quasi subito mi venne chiesto come potessero trovarmi su Instagram. Non appena risposi di non “essere” sulla piattaforma social, notai per un attimo uno sguardo di stupore misto a disagio. Divenni improvvisamente illeggibile in quanto celavo, nella mia desueta intimità, parte del mio mondo, che sarebbe potuto venire a galla per mezzo di una o più amichevoli conversazioni. Tutto cambia, e l’interazione, quel che ci ha reso animali sociali, assume una differente configurazione. Così, chi non possiede, o forse si fa possedere, dal mondo dei social, automaticamente diviene una sorta di reietto e quindi, suo malgrado, si mimetizza, rimane nascosto. Non esiste. Tutti vogliono essere notati, acquisire un momento di celebrità, essere “seguiti” come novelli messia bramosi di schiere di discepoli, i quali a loro volta attendono voraci, sui propri schermi, il pane quotidiano che sarà loro elargito. Un meccanismo oramai ben consolidato, non più fenomeno di costume, ma parte integrante dell’agire di ogni persona.

I momenti che viviamo nella realtà fisica sono davvero nostri o scegliamo di viverli passivamente, immortalandoli per mezzo degli smartphone-protesi per consegnarli allo sguardo altrui? Riusciamo davvero a goderci il momento o più forte incombe l’imperativo di documentarlo a beneficio della posterità permanente del virtuale? A ciascuno le proprie considerazioni. Io stesso ho dovuto cedere alle lusinghe di questo sistema di cui siamo, più o meno, tutti schiavi, per cercare di adattarmi a un mondo che non mi appartiene, piegandomi a certe logiche più per comodo che per passione. Di certo indietro non si torna, a meno che improvvisi e inaspettati blackout non ci costringano a farlo. Provate, in quel caso, a osservare lo sguardo smarrito di molta gente, in crisi d’astinenza. 

Liu Bolin (Shandong, 1973), tra i più celebri artisti cinesi, indaga con una poetica malinconicamente ironica proprio la perdita d’identità dell’individuo. In una società come quella cinese, la cui economia costantemente in ascesa ha generato in brevissimo tempo enormi mutamenti, in un paese che notoriamente non ammette l’esercizio della libertà, è davvero facile, se non consueto, rinunciare alla propria individualità. In una efficace commistione di Body Painting e fotografia, le opere di Bolin sono performances che denunciano la sparizione della coscienza, in particolar modo nella lunga e interminata serie Hiding in the City. La figura umana viene inghiottita dallo spazio, da quel fondale che la ingloba, alla stessa maniera in cui molti uomini, calati in un contesto dispotico, rimangono invischiati passivamente nelle spire dell’oppressione, rimanendo invisibili e silenziosi, senza possibilità di riemergere. Alla stessa maniera in cui noi, “liberi”, col lusso della democrazia e dei diritti, ci lasciamo sopraffare, grazie a una partecipazione più che attiva, dalle seducenti fattezze di una dimensione tecnologica altra. La disumanizzazione, in entrambi i casi, è dietro l’angolo.

Cosa si dovrebbe fare allora per restare umani? Le immagini di Bolin sono più che eloquenti. Cercare di evitare di consumare qualsiasi cosa ci capiti a tiro, in una fretta vorace e indotta, scoprire quel che davvero ci appassiona e soprattutto fuggire come la peste l’omologazione di azioni e pensiero. Ogni idea, quando muta in ideale, porta con sé ombre poco rassicuranti, foriere di fanatismi che viaggiano poi velocissimi, trasportati dalle maree delle masse. Non crediate – e lo dico anche a me stesso – di poter ritrovare la strada, una volta troppo addentrati nel labirinto.

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